Letta la relazione prot. 101548/16/43/22 del 15 luglio 2005 con la quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Ufficio legislativo chiede il parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore estensore consigliere Filoreto D'Agostino;
Premesso:
Riferisce il Ministero del lavoro e delle politiche sociali come alla disciplina dei riposi e permessi per i figli con handicap grave, contenuta nell'articolo 42 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 141 (1) corrisponda, sotto il profilo del trattamento economico e normativo, la regolamentazione del successivo articolo 43.
Il primo comma di quest'ultimo dispone che per i riposi e permessi in questione è dovuta un'indennità, a carico dell'ente assicuratore pari all'intero ammontare della relativa retribuzione; il secondo comma prescrive de debbano applicarsi le disposizioni di cui all'articolo 34, comma 5 del medesimo testo normativo.
Il precetto appena richiamato così recita: "I periodi di congedo parentale sono computati nell'anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia.".
Il Dipartimento della funzione pubblica, con circolare n. 208 del 2005, sulla scorta di parere reso dall'Avvocatura generale dello Stato a con specifico riferimento al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ha precisato come la fruizione dei permessi retribuiti ai sensi dell'articolo 33, commi 2 e 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (oggi riversati nei commi 1 e 2 dell'articolo 42 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 sopra indicato) non comporti alcuna riduzione della tredicesima mensilità.
Nel parere del 19 novembre 2004 (CS. 10092/2004), l'Avvocatura generale dello Stato ha, tra l'altro, rilevato come "vista la ratio di tutela e di protezione della normativa in esame a favore di soggetti particolarmente deboli, tra cui i lavoratori familiari di persone portatrici di handicap, e vista l'evidente finalità sociale delle disposizioni esaminate, non si può non interpretare la normativa in esame nel senso che la tredicesima mensilità non subisce decurtazioni o riduzione nell'ipotesi nella quale un lavoratore scelga di fruire dei permessi disposti dal secondo e terzo comma del già citato articolo 32. (2)"
Alla stregua di queste osservazioni, che travalicano i confini della legislazione, ancora per certi versi speciale, relativa al lavoro nelle pubbliche amministrazioni, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è stato investito dell'argomento relativamente al settore privato.
A questo fine l'Amministrazione riferente osserva che il parere sopra indicato non sembra essere fondato su precise norme di legge e prospetta a questo Consiglio di Stato la possibilità che, per giungere a conclusioni analoghe per quanto riguarda il settore privato, possa utilizzarsi la normativa antidiscriminazioni contenuta nel decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 recante l'attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
L'Amministrazione si domanda se la disciplina da ultimo citata (ed in particolare l'articolo 3 di quel decreto legislativo) possa avere un effetto abrogativo di norme (quale il comma 2 dell'articolo 43 del decreto legislativo n. 151 del 2001) "che potrebbero essere interpretate come violatrici del divieto di discriminazione".
Si chiede, in definiva, se sia tuttora vigente e non travolta da abrogazione implicita la citata disposizione che prevede la decurtazione delle ferie e della tredicesima mensilità nel caso che il lavoratore o la lavoratrice usufruiscano di riposi o di permessi previsti dall'articolo 33, commi 2 e 3 della legge n. 104 del 1992.
Considerato:
Il quesito formulato dall'Amministrazione del lavoro e delle politiche sociali sollecita l'interpretazione, da parte di questa Sezione, del precetto recato nell'articolo 43, comma 2 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, che sembra imporre la riduzione e la decurtazione di ferie e di tredicesima mensilità in ragione dei riposi e dei permessi ottenuti a'sensi di commi 1, 2 e 3 dell'articolo 42 del medesimo testo legislativo da genitori di disabile grave.
L'Amministrazione richiedente, in particolare, prospetta un'eventuale abrogazione della norma in esame (o comunque una sostanziale innovazione della tematica) a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, che introduce una più penetrante e puntuale disciplina per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in attuazione delle direttiva 2000/78/CE.
La Sezione ritiene che, per una corretta impostazione del problema, si debba prescindere dall'eventualità dell'abrogazione dell'articolo 43, comma 2 del decreto legislativo n. 151 del 2001 ad opera del decreto legislativo n. 216 del 2003. L'eventualità non sembra, invero, suffragata da alcun argomento esegetico. Seguire tale metodica finirebbe, inoltre, per rivelarsi fuorviante rispetto alla questione di fondo per la quale è stato officiato questo Consiglio di Stato: l'applicazione per il lavoro privato di un regime omologo a quello determinato, per i lavoratori del settore pubblico, dal Dipartimento della funzione pubblica con circolare n. 208 del 2005 sulla scorta delle indicazioni fornite dall'Avvocatura generale dello Stato con il parere 19 novembre 2004, che ha concluso per la non decurtabilità della tredicesima mensilità per coloro che abbiano fruito dei riposi e dei permessi previsti dai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 42 del decreto legislativo n. 151 del 2001 (già commi 2 e 3 dell'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 come modificato dall'articolo 19 della legge 8 marzo 2000, n. 53).
Si anticipa, pertanto, che una lettura sistematica e coerente dei precetti contenuti nel testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità convince dell'incidenza della norma in questione (articolo 43, comma 2 del decreto legislativo n. 151 del 2001) in una sola e ben limitata fattispecie, cioè quella prevista dal comma 4 dell'articolo 42 già citato, che così recita: "I riposi e i permessi, ai sensi dell'articolo 33, comma 4 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, possono essere cumulati con il congedo parentale ordinario e con il congedo per la malattia del figlio".
Gli argomenti che confortano la conclusione appena rassegnata sono diversi. Il primo muove dalla natura ricognitiva del testo unico contenuto nel decreto legislativo n. 151 del 2001.
L'approntamento del testo unico era previsto dall'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53 nei seguenti termini: "Al fine di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo è delegato ad emanare un decreto legislativo recante il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) puntuale individuazione del testo vigente delle norme;
b) esplicita indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni;
c) coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo;
d) esplicita indicazione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restano comunque in vigore;
e) esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni non richiamate, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico;
f) esplicita abrogazione delle nonne secondarie incompatibili con le disposizioni legislative raccolte nel testo unico."
È agevole avvedersi della limitata capacità abrogativa e innovativa del testo unico, nel quale le modifiche rispetto ai provvedimenti normativi da coordinare sono limitate a garantirne la coerenza logica o sistematica, senza travalicare il confine dalla innovazione fine a se stessa e incoerente rispetto agli istituti giuridici ivi regolamentati. Ciò corrisponde a quanto a suo tempo precisato dalla Sezione sugli atti nominativi di questo Consiglio, che nel parere n. 220/2000 reso nell'adunanza del 15 gennaio 2001 sull'emanando testo unico poi individuato come decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, osservava che: "in base alle indicazioni della legge delegante il testo normativo in parola si differenzia, per contenuti e procedimento, da quelli previsti dall'art. 7 della L. n. 50/1999, anche se ne ripete in numerose parti le formulazione: esso, infatti, ha natura meramente ricognitiva delle norme legislative attualmente vigenti e non ha, pertanto, efficacia innovativa sulle preesistenti norme primarie in quanto sprovvisto dell'efficacia delegificante prevista dall'art. 7 della legge n. 50/1999. Anche la portata abrogativa delle norme di rango secondario non si ricollega ad un'efficacia abrogativa propria del testo unico, ma deriva dai rapporti ordinari tra fonti e dall'istituto dell'abrogazione implicita per contrasto fra disposizioni aventi valore differenziato, primario e secondario.
Ancora è da rilevare che nella ricognizione dalle fonti legislative da coordinare l'amministrazione ha tenuto legittimamente conto delle numerose sentenze emanate in materia dalla Corte Costituzionale, incidendo soprattutto sul principale corpo normativo di riferimento, cioè la legge n. 1204 del 1971."
Da quanto rilevato dalla Sezione degli atti normativi di questo Consiglio, discende in modo indefettibile come le norme sostanziali dovessero essere riversate nel testo coordinato nel pieno rispetto della loro precettività quale risultava nel testo da coordinare.
Se si esamina la fonte delle norme in esame (cioè l'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104) ci si avvede che, dopo aver previsto le due diverse specie di permesso giornaliero e permesso mensile (commi 2 e 3), al comma 4 si disponeva: "Ai permessi di cui ai commi 2 e 3, che si cumulano con quelli previsti all'articolo 7 della citata legge n. 1204 del 1971, si applicano le disposizioni di cui all'ultimo comma del medesimo articolo 7 della legge n. 1204 del 1971, nonché quelle contenute negli articoli 7 e 8 della legge 9 dicembre 1977, n. 903".
L'ultimo comma dell'articolo 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 prevedeva appunto che "i periodi di astensione dal lavoro di cui ai commi 1 e 4 sono computati nell'anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia". Sostituendo l'espressione "astensione dal lavoro di cui ai commi 1 o 4" cioè "astensione facoltativa" con quella di congedo parentale così come previsto dall'articolo 2, lettera c) del medesimo testo unico n. 151 del 2001, emerge con ogni evidenza come la formula precettiva del primo periodo del comma 5 dell'articolo 7 della legge n. 1204 del 1971 sia stata trasfusa nell'articolo 34, comma 5 dello stesso testo unico. Ciò è, d'altro canto, ribadito dalla indicazione, sotto la rubrica, delle disposizioni riprodotte, tra le quali è esplicitamente previsto l'articolo 7, comma 5 della legge di tutela della maternità del 1971.
La disposizione va, conseguentemente, ricollocata nel contesto della originaria formulazione del comma 4 dell' articolo 33, che risulta, nel testo unico, frammentata in due diverse disposizioni: il comma 4 dell'articolo 42 e il comma 2 dell'articolo 43.
Ne consegne come, sul presupposto della natura non innovativa del testo unico in parola, la norma recata nella fonte originaria non possa avere significato e valore diverso se inserita in un ambito apparentemente diverso.
La norma sostanziale, in altre parole, assoggetta a riduzione delle ferie e della tredicesima solo i permessi fruiti dai genitori di disabile grave che siano cumulati con il congedo parentale ordinario e con il congedo per la malattia del figlio. La medesima regola deve intendersi reiterata e non modificata una volta inserita nel testo unico.
Se la regola opera nell'ipotesi di cumulo, vale, per l'effetto, il principio che, negli altri casi, non debba farsi luogo a decurtazione o riduzione di sorta.
Milita a favore della tesi prospettata dalla Sezione, oltre all'argomento sulla evoluzione e ricomposizione delle norme, quello relativo alla diversa natura dei congedi e dei permessi.
Il congedo parentale è costituito dalla cesura totale della prestazione lavorativa per periodi più o meno lunghi, frazionati o continuativi. L'astensione determina uno stato di parziale quiescenza del rapporto, con una sua piena reviviscenza una volta spirato il termine dal congedo.
I permessi sono assenze temporalmente assai limitate e brevi. Esse si collocano nell'ambito di una sostanziale continuità. di prestazione lavorativa che non altera in modo apprezzabile il pieno inserimento del genitore di figlio con handicap nell'organizzazione dalla quale dipende e senza che si determinino fasi interinali di quiescenza del rapporto stesso.
Nel caso di cumulo di congedi e permessi, quando cioè si aggiungono a periodi di astensione altri di assenza temporanea dal lavoro, la distinzione si rivela assai più difficile e comunque il risultato complessivo della fruizione di entrambe le possibilità offerte dalla legislazione non può essere più ricondotto al fenomeno dell'assenza legittima, posto che in relazione al cumulo, si determina una sostanziale sottrazione del lavoratore agli impegni lavorativi per i relativi periodi.
Ciò corrisponde a una obiettiva istanza ben tenuta presente dal legislatore.
I permessi relativi a figlio con handicap si collocano nel quadro di una tutela di valori presidiati da numerose norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 30, 31, 32, 36, 37 c.1, 38 Cost.), che non riguardano, come è agevole intuire, solo gli impegni di ordine familiare e di tutela dei minori. Si tratta, infatti, di soggetti (i minori gravemente disabili) per i quali insorge nella comunità - e non solo nell'ambito della famiglia - un dovere di assistenza (come risulta evidente dalla lettura dell'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 104). Tale dovere è coerente al rispetto della vita umana e al valore sacro che quest'ultima, indipendentemente dall'accettazione di credo religiosi, ma solo sulla base del diritto positivo, assume siccome intrinseca alla dignità dell'uomo. Sulla dignità umana (riaffermata come valore guida nel contesto delle finalità perseguite dalla Repubblica nel richiamato articolo 1 della legge n. 104 del 1992), sono parametrati, invero, tutti i valori di rilievo costituzionale, anche se in modo non esplicito come nella GrundGesetz germanica.
In questo quadro, la posizione dei genitori, ancorché soggetti a peculiari vincoli e obblighi, assume connotazioni specifiche nelle quali si compongono gli ordinari doveri di educazione e di cura della prole con quelli di assolvimento di un compito di tutela della vita e della educazione in soggetti gravemente lesi sotto vari profili nell'ordinario sviluppo. Ciò spiega, d'altro canto, la fruibilità dell'istituto del congedo previsto dal comma 2 dell'articolo 4 della legge 8 marzo 2000, n. 53 da parte di fratelli o sorelle conviventi di soggetto con handicap in situazione di gravità (art. 42, c. 5), quando i genitori siano impossibilitati a provvedere all'assistenza del figlio perché totalmente inabili (Corte costituzionale 16 giugno 2005, n. 233).